Ho conosciuto Giovanni Noferi, a Capo di Ponte, nell’Istituto che presiedevo, alcuni anni fa. Mi ricordo molto bene di come fosse stato coinvolgente nel narrare la sua triste esperienza e come i ragazzi l’avessero seguito con grande interesse. Sull’onda della sua testimonianza sono andato a rileggermi I sommersi e i salvati di Primo Levi. L’avevo letto molti anni fa appena uscito. Si tratta di due esperienze molto diverse poiché il grande scrittore torinese fu spedito in un campo di sterminio, Noferi in un campo di prigionia. Il trattamento però, nella vita quotidiana, non era molto diverso.
Ora narrare queste storie non è facile. I testimoni sono ormai quasi tutti scomparsi. Ma non è solo quello il problema. È che il pubblico tende a rifiutare quegli avvenimenti per la loro stessa enormità. Molti che hanno vissuto quelle esperienze non amavano parlarne proprio per questo: il rischio di non essere creduti, il rischio di essere fraintesi, il rischio di non riuscire a rendere, se non pallidamente, il totale delirio nel quale erano stati immersi.
Ma c’è un’altra realtà che va considerata. Molti testimoni non ne volevano parlare perché si sentivano complici. Il 90% o forse più degli internati militari in campi di prigionia tedeschi avevano applaudito all’ingresso in guerra dell’Italia. Avevano inneggiato all’Impero. Non avevano capito nulla del regime dittatoriale nemmeno quando aveva approvato le leggi razziali. Erano partiti convinti della follia del “Vincere e vinceremo”.
Noferi veniva da famiglia antifascista fin dall’origine. È per questo che racconta. Altri hanno preferito tacere addirittura all’interno delle loro famiglie. In effetti non è facile raccontare la perversione umana spinta all’estremo. Per varie ragioni. Una di queste è la complicità e quindi la vergogna. Molti collaborarono con le autorità tedesche. Anche con le più criminali. Molti kapò erano ebrei. Se non ci fu collaborazione diretta ci fu quella che Levi chiama la zona grigia. Una silenziosa accondiscendenza dovuta ad opportunismo. «[…] Non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno del Lager. Non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene […] L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile […] Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua».
Se si è appartenuti alla zona grigia, alla zona della complicità indiretta, non ci sono le condizioni per narrare a meno che si abbia il coraggio spregiudicato della verità anche contro se stessi. Narrano a fatica le anime più cristalline. Noferi tra questi. Racconta in tutti i particolari Arturo Frizza nei suoi volumi La terra delle rape, recentemente pubblicato dal Circolo Ghislandi. Parlano perché sono stati degli eroi nel non essere stati assorbiti dalla attraentissima “zona grigia”. La zona nella quale vive chi ha come unico scopo quello di salvarsi la pelle anche a scapito di qualche suo compagno. Dividersi il pane quando la sofferenza della fame ti attanaglia è eroismo, ma pochi sono capaci di tanto. Allora è meglio cadere nell’oblio o nel mutismo, oppure falsare la storia come è accaduto e accade al popolo tedesco o a chi ha aderito al fascismo anche dopo l’8 settembre 1943.
Non si racconta anche, pur non avendo alle spalle connivenze, anzi opposizione dura ai totalitarismi, perché dopo il primo schiaffo sul viso si è incrinata per sempre la fiducia nell’umanità.
È la storia di Nino che ho raccontato nel libro Nino Maffezzoni confinato a Ponza. L’ingiustizia crudele e ripetuta distrugge la speranza. Eppure è necessario ricordare anche a costo di essere fraintesi. È necessario anche solo per il fatto che il razzismo imperversa di nuovo anche oggi e molta gente a parole si professa cristiana o comunista e poi quando entra nella cabina elettorale vota i partiti razzisti.
Primo Levi nel libro citato parla dell’esperienza a volte deludente nelle scuole e degli stereotipi che circolano e non aiutano a capire. Non è facile parlare ai ragazzi e non è facile sconfiggere la “zona grigia” che costituisce la principale nemica della civiltà e della democrazia. Meglio un avversario ben identificato che un grigio. L’opera nelle scuole ha senso e ha effetto proprio se
colpisce lì. Giovanni Noferi ci ha provato. Ora che lui non c’è più, il testimone passa inevitabilmente a chi spera di poter continuare il suo cammino sapendo che la strada non è in discesa. Tutt’altro.
Giancarlo Maculotti
Ho conosciuto Giovanni Noferi, a Capo di Ponte, nell’Istituto che presiedevo, alcuni anni fa. Mi ricordo molto bene di come fosse stato coinvolgente nel narrare la sua triste esperienza e come i ragazzi l’avessero seguito con grande interesse. Sull’onda della sua testimonianza sono andato a rileggermi I sommersi e i salvati di Primo Levi. L’avevo letto molti anni fa appena uscito. Si tratta di due esperienze molto diverse poiché il grande scrittore torinese fu spedito in un campo di sterminio, Noferi in un campo di prigionia. Il trattamento però, nella vita quotidiana, non era molto diverso.
Ora narrare queste storie non è facile. I testimoni sono ormai quasi tutti scomparsi. Ma non è solo quello il problema. È che il pubblico tende a rifiutare quegli avvenimenti per la loro stessa enormità. Molti che hanno vissuto quelle esperienze non amavano parlarne proprio per questo: il rischio di non essere creduti, il rischio di essere fraintesi, il rischio di non riuscire a rendere, se non pallidamente, il totale delirio nel quale erano stati immersi.
Ma c’è un’altra realtà che va considerata. Molti testimoni non ne volevano parlare perché si sentivano complici. Il 90% o forse più degli internati militari in campi di prigionia tedeschi avevano applaudito all’ingresso in guerra dell’Italia. Avevano inneggiato all’Impero. Non avevano capito nulla del regime dittatoriale nemmeno quando aveva approvato le leggi razziali. Erano partiti convinti della follia del “Vincere e vinceremo”.
Noferi veniva da famiglia antifascista fin dall’origine. È per questo che racconta. Altri hanno preferito tacere addirittura all’interno delle loro famiglie. In effetti non è facile raccontare la perversione umana spinta all’estremo. Per varie ragioni. Una di queste è la complicità e quindi la vergogna. Molti collaborarono con le autorità tedesche. Anche con le più criminali. Molti kapò erano ebrei. Se non ci fu collaborazione diretta ci fu quella che Levi chiama la zona grigia. Una silenziosa accondiscendenza dovuta ad opportunismo. «[…] Non era semplice la rete dei rapporti umani all’interno del Lager. Non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene […] L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile […] Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua».
Se si è appartenuti alla zona grigia, alla zona della complicità indiretta, non ci sono le condizioni per narrare a meno che si abbia il coraggio spregiudicato della verità anche contro se stessi. Narrano a fatica le anime più cristalline. Noferi tra questi. Racconta in tutti i particolari Arturo Frizza nei suoi volumi La terra delle rape, recentemente pubblicato dal Circolo Ghislandi. Parlano perché sono stati degli eroi nel non essere stati assorbiti dalla attraentissima “zona grigia”. La zona nella quale vive chi ha come unico scopo quello di salvarsi la pelle anche a scapito di qualche suo compagno. Dividersi il pane quando la sofferenza della fame ti attanaglia è eroismo, ma pochi sono capaci di tanto. Allora è meglio cadere nell’oblio o nel mutismo, oppure falsare la storia come è accaduto e accade al popolo tedesco o a chi ha aderito al fascismo anche dopo l’8 settembre 1943.
Non si racconta anche, pur non avendo alle spalle connivenze, anzi opposizione dura ai totalitarismi, perché dopo il primo schiaffo sul viso si è incrinata per sempre la fiducia nell’umanità.
È la storia di Nino che ho raccontato nel libro Nino Maffezzoni confinato a Ponza. L’ingiustizia crudele e ripetuta distrugge la speranza. Eppure è necessario ricordare anche a costo di essere fraintesi. È necessario anche solo per il fatto che il razzismo imperversa di nuovo anche oggi e molta gente a parole si professa cristiana o comunista e poi quando entra nella cabina elettorale vota i partiti razzisti.
Primo Levi nel libro citato parla dell’esperienza a volte deludente nelle scuole e degli stereotipi che circolano e non aiutano a capire. Non è facile parlare ai ragazzi e non è facile sconfiggere la “zona grigia” che costituisce la principale nemica della civiltà e della democrazia. Meglio un avversario ben identificato che un grigio. L’opera nelle scuole ha senso e ha effetto proprio se
colpisce lì. Giovanni Noferi ci ha provato. Ora che lui non c’è più, il testimone passa inevitabilmente a chi spera di poter continuare il suo cammino sapendo che la strada non è in discesa. Tutt’altro.
Giancarlo Maculotti