di Valsaviore

OPUSCOLO GIUSEPPE PELOSI- Partigiano

BIOGRAFIA

Giuseppe (Peppino) Pelosi, sottotenente del 24° reggimento fanteria “Como” dislocato in Croazia, fu fucilato dai tedeschi il 1° marzo
1944 a S. Michele di Verona, all’età di ventiquattro anni.
Proveniente da una famiglia di modestissime condizioni (di Padernello il padre muratore, di Piffione di Borgosatollo la madre Angela Dotti), Peppino sceglie di entrare nella Resistenza bresciana con slancio ed ardore romantico, animato da uno spirito idealista e “risorgimentale”, come si evince da una frase desunta da un suo scritto del 1937: «Sono pazzo come Aroldo, appassionato come Renzo e sognatore…».
Fatto il ginnasio all’Arici e quindi passato alle magistrali, si era iscritto all’Università di Urbino. L’8 settembre si trova in licenza
nella sua terra bresciana tutta in fermento dopo lo sbandamento del 1943, dove si registra una specie di assembramento di uomini,
a cominciare dalla fine di settembre, a cavallo tra la Val Trompia e la Val Camonica. Una vera e propria formazione di partigiani si
era acquartierata alla Croce di Marone, tra italiani e stranieri fuggiti dai campi di concentramento, sistemati su per le baite e le cascine, mentre nella principale delle due osterie si era insediato il comando, in una posizione imprendibile, date anche le mitragliatrici di cui disponeva. Buona parte delle armi di cui disponeva il rifugio erano frutto del colpo di mano ardito una notte da Peppino Pelosi ai magazzini Beretta di Gardone Val Trompia, rapidamente vuotati e il cui prezioso materiale, aveva preso la strada verso la Croce di Marone. Tra i ribelli per scelta, determinazione e sacrificio, come Rolando Petrini e lo stesso Pelosi, vi erano lassù anche individui come il Martini, un tenente milanese, attorno al quale si disposero gli elementi più deboli, i meno dotati ma pronti furbamente a sfruttare la situazione per ricavarne facili guadagni, senza nessuno scrupolo, compromettendo l’assunto stesso della Resistenza. Quando i fascisti e i tedeschi salirono per snidare la formazione, la banda di Martini non mosse un dito, non sparò un colpo…
Così dopo aver combattuto con ben pochi elementi, tra cui con accanimento particolare i polacchi, Pelosi scese da solo ad incontrare un brigadiere e due carabinieri, mandati dai tedeschi a chiedere la resa minacciando rappresaglie su Gardone in caso di nuove
imprese e, una volta disarmati, li rimandò a riferire che nessuna nuova impresa sarebbe stata fatta dai ribelli ma che, se volevano la
resa, dovevano salire a prenderli!
Chiusa l’amara esperienza alle pendici del Guglielmo, costretto a nascondersi in una soffitta nei pressi di San Faustino e con
il pensiero rivolto ai compagni rimasti a combattere sui monti, colse l’occasione di unirsi ai fratelli Franco e Roberto Salvi,
ugualmente ricercati dai fascisti e nascosti in una baita sopra Lovere, a Ceretello. Aveva in mente un progetto: riuscire ad impiantare una trasmittente, Radio Brescia, che incitasse le popolazioni alla riscossa.                                                                                                      Lo arrestarono il 13 dicembre 1943 e da Lovere fu tradotto a Bergamo e poi alle carceri di Brescia, da dove a Natale scrisse
alla madre: «… sai che non per furto, non per altra cattiva azione io mi ci trovo, ma solo perché la mia coscienza di Ufficiale del Re, di italiano, non mi ha permesso di piegarmi al disonore di divenire spergiuro. Altre accuse mi si fanno, che però non possono minimamente ferirmi perché basate sul nulla…».
L’ultimo dell’anno è con i Salvi in carcere a Verona, al forte San Mattia, dove ogni sera si leggono due liste: c’è chi va in Germania e
c’è chi dice addio a tutto e va al di là. In una lettera del 28 febbraio che scrive ai genitori si legge: «Mai vi ho sentito così vicini come in queste ore di dolore, come in queste ore di una bellezza triste, ma serena. Voi sapete ormai quale condanna pesa sulla mia testa… Ho affidato la mia vita a Colui che governa l’esistenza di ognuno. E attendo giorno per giorno, ora per ora, ciò che costituisce la risposta al grande interrogativo…».
Poche ore prima dell’esecuzione della sentenza, la madre ebbe la grazia di vederlo in un incontro breve, durato solo pochi minuti,
dopo di che chiese di poter scrivere le sue ultime parole, quelle in cui il distacco si fa luce per l’eternità: «Non ho rimpianti nel lasciare questa mia vita perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo e soprattutto per la mia diletta patria alla quale auguro figli più degni e un avvenire più splendente…».
Giannetto Valzelli

 

BIOGRAFIA

Giuseppe (Peppino) Pelosi, sottotenente del 24° reggimento fanteria “Como” dislocato in Croazia, fu fucilato dai tedeschi il 1° marzo
1944 a S. Michele di Verona, all’età di ventiquattro anni.
Proveniente da una famiglia di modestissime condizioni (di Padernello il padre muratore, di Piffione di Borgosatollo la madre Angela Dotti), Peppino sceglie di entrare nella Resistenza bresciana con slancio ed ardore romantico, animato da uno spirito idealista e “risorgimentale”, come si evince da una frase desunta da un suo scritto del 1937: «Sono pazzo come Aroldo, appassionato come Renzo e sognatore…».
Fatto il ginnasio all’Arici e quindi passato alle magistrali, si era iscritto all’Università di Urbino. L’8 settembre si trova in licenza
nella sua terra bresciana tutta in fermento dopo lo sbandamento del 1943, dove si registra una specie di assembramento di uomini,
a cominciare dalla fine di settembre, a cavallo tra la Val Trompia e la Val Camonica. Una vera e propria formazione di partigiani si
era acquartierata alla Croce di Marone, tra italiani e stranieri fuggiti dai campi di concentramento, sistemati su per le baite e le cascine, mentre nella principale delle due osterie si era insediato il comando, in una posizione imprendibile, date anche le mitragliatrici di cui disponeva. Buona parte delle armi di cui disponeva il rifugio erano frutto del colpo di mano ardito una notte da Peppino Pelosi ai magazzini Beretta di Gardone Val Trompia, rapidamente vuotati e il cui prezioso materiale, aveva preso la strada verso la Croce di Marone. Tra i ribelli per scelta, determinazione e sacrificio, come Rolando Petrini e lo stesso Pelosi, vi erano lassù anche individui come il Martini, un tenente milanese, attorno al quale si disposero gli elementi più deboli, i meno dotati ma pronti furbamente a sfruttare la situazione per ricavarne facili guadagni, senza nessuno scrupolo, compromettendo l’assunto stesso della Resistenza. Quando i fascisti e i tedeschi salirono per snidare la formazione, la banda di Martini non mosse un dito, non sparò un colpo…
Così dopo aver combattuto con ben pochi elementi, tra cui con accanimento particolare i polacchi, Pelosi scese da solo ad incontrare un brigadiere e due carabinieri, mandati dai tedeschi a chiedere la resa minacciando rappresaglie su Gardone in caso di nuove
imprese e, una volta disarmati, li rimandò a riferire che nessuna nuova impresa sarebbe stata fatta dai ribelli ma che, se volevano la
resa, dovevano salire a prenderli!
Chiusa l’amara esperienza alle pendici del Guglielmo, costretto a nascondersi in una soffitta nei pressi di San Faustino e con
il pensiero rivolto ai compagni rimasti a combattere sui monti, colse l’occasione di unirsi ai fratelli Franco e Roberto Salvi,
ugualmente ricercati dai fascisti e nascosti in una baita sopra Lovere, a Ceretello. Aveva in mente un progetto: riuscire ad impiantare una trasmittente, Radio Brescia, che incitasse le popolazioni alla riscossa.                                                                                                      Lo arrestarono il 13 dicembre 1943 e da Lovere fu tradotto a Bergamo e poi alle carceri di Brescia, da dove a Natale scrisse
alla madre: «… sai che non per furto, non per altra cattiva azione io mi ci trovo, ma solo perché la mia coscienza di Ufficiale del Re, di italiano, non mi ha permesso di piegarmi al disonore di divenire spergiuro. Altre accuse mi si fanno, che però non possono minimamente ferirmi perché basate sul nulla…».
L’ultimo dell’anno è con i Salvi in carcere a Verona, al forte San Mattia, dove ogni sera si leggono due liste: c’è chi va in Germania e
c’è chi dice addio a tutto e va al di là. In una lettera del 28 febbraio che scrive ai genitori si legge: «Mai vi ho sentito così vicini come in queste ore di dolore, come in queste ore di una bellezza triste, ma serena. Voi sapete ormai quale condanna pesa sulla mia testa… Ho affidato la mia vita a Colui che governa l’esistenza di ognuno. E attendo giorno per giorno, ora per ora, ciò che costituisce la risposta al grande interrogativo…».
Poche ore prima dell’esecuzione della sentenza, la madre ebbe la grazia di vederlo in un incontro breve, durato solo pochi minuti,
dopo di che chiese di poter scrivere le sue ultime parole, quelle in cui il distacco si fa luce per l’eternità: «Non ho rimpianti nel lasciare questa mia vita perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo e soprattutto per la mia diletta patria alla quale auguro figli più degni e un avvenire più splendente…».
Giannetto Valzelli

 

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