Il ruolo rivestito dalle donne nel movimento partigiano di Valsaviore è assai più rilevante di quanto non sia stato accertato in sede storiografica. È oggi possibile ricostruire solo una minima parte degli episodi e dei gesti di solidarietà femminile rivelatisi decisivi nell’evitare arresti e uccisioni dei ribelli. Alla naturalezza con cui viene prestato aiuto, dopo la Liberazione non corrisponde la rivendicazione di meriti o l’annotazione nelle cronache dei rischi corsi per giovare ai garibaldini. La maggioranza delle donne che hanno fornito un apporto essenziale al movimento resistenziale, rischiando la vita in diverse occasioni, sono state “partigiane senza
brevetto”, cioè senza aver ricevuto nel dopoguerra un riconoscimento ufficiale. «Solo una piccola minoranza di esse andò, alla Liberazione, a farsi dare il riconoscimento ufficiale, mentre gli uomini andarono tutti; andò anche, come qualche volta si è detto, qualcuno in più. Del resto, si capisce: a loro poteva anche giovare, non fosse che per ragioni di servizio militare, ma le donne di quel pezzo di carta che ne facevano? Senza contare che la maggior parte di loro aveva il sopravvento dell’invincibile modestia che le portava a ritenere di non aver fatto “niente di speciale”» (citazione tratta da L’altra metà della Resistenza di AA.VV, Marzotta
Editore, 1978).
Nell’economia montana la donna affiancava alla cura della famiglia il lavoro nei campi. Scoppiata la guerra, il ruolo femminile è accresciuto di pari passo con il massiccio prelievo della gioventù maschile da parte degli organi di reclutamento. Dopo l’Armistizio, sono state le donne a partire dalla Valsaviore verso la Bassa Bresciana, per barattare patate e castagne con farina di granoturco e altri generi alimentari di primaria necessità. La scarsità di cibo, le costringeva a fare lunghi ed estenuanti viaggi per scambiare quel poco di cui potevano privarsi per il sostentamento della famiglia, nei mercati delle città oppure al mercato clandestino, per portare a casa farina, zucchero, sale e tutti quegli alimenti che non fornivano la lavorazione della terra o l’allevamento del bestiame.
Al significato di casa, della quale la donna tradizionalmente è considerata come custode del focolare, si affianca nell’impegno resistenziale una rilevante funzione pubblica, allorché l’abitazione diviene sede di comando, infermeria o rifugio per renitenti, partigiani e fiancheggiatori. Questa difficile gestione tra normalità apparente e clandestinità è gestita dalle donne della Valsaviore che, avendo vissuto in famiglie di orientamento politico avverso al fascismo costato ai propri cari persecuzioni e allontanamento dal proprio paese, ne hanno fatto un ideale nel momento in cui si espongono per la giusta causa, nella quale avevano sempre creduto aiutando la Resistenza locale. A fianco dei comportamenti rischiosi e pericolosi assunti dalle donne, dei quali la motivazione può
essere ricondotta all’ospitalità e alla solidarietà, si trovano pertanto nel loro intimo consapevoli convinzioni antifasciste, «i cui valori sono quelli della tradizione contadina sui quali però è attecchito il seme della ribellione in seguito alle ingiustizie subite. In questo caso l’attività antifascista è una scelta maturata in cerca di una diretta e personale esperienza […]. Il fatto che la storia politica dell’intervistata si collochi nella tradizione della famiglia non sminuisce il valore della scelta personale. Dimostra piuttosto il suo legame solido con l’antifascismo, la necessità reale e non puramente ideale di essere antifascisti per chi, come lei, conosce fin da
bambina condizioni di povertà e da adolescente, costretta a misurarsi con le regole e i riti del fascismo al potere, scopre la propria impossibilità di tollerarli e di adeguarvisi».
Dall’8 settembre 1943, data dell’Armistizio e inizio della renitenza, e per tutto il periodo della Resistenza fino al 25 aprile 1945, data
convenzionale della Liberazione dai regimi nazista e fascista, le donne valsavioresi, madri, mogli, sorelle, fidanzate di renitenti, disertori o partigiani, si sono premurate di occultare nei diversi paesi uomini bisognosi di cure e protezione. Li nascondono in soffitte, anfratti e bugigattoli o dando loro abiti civili, del cibo e un luogo sicuro dove rifocillarsi per poi riprendere il viaggio verso casa. Si preoccupano di tenerli informati sugli spostamenti dei reparti nazifascisti attraverso piccoli gesti, come stendere le lenzuola sull’erba per indicar loro la presenza di pattuglie fasciste, squadre o un rastrellamento in corso. Assicurarono i collegamenti come
staffette ai vari reparti e tra il Comando e i centri resistenziali e, in alcuni casi, si impegnano come combattenti, entrando anche nei gruppi di Brigata.
Tenendo presenti le esperienze attraversate dalle donne coinvolte nella Resistenza valsaviorese e le testimonianze da esse rilasciate, è possibile abbozzare tre possibili e differenti ruoli:
• La militanza a tempo pieno nella formazione armata, che è un’eccezione di MARIA FRANZINELLI, staffetta in fuga perché ricercata dai fascisti. ROSINA ROMELLI, una ragazza quindicenne che ha dovuto seguire i genitori in Val Malga. ELSA SACOBOSI
che, proveniente dal contesto socio-culturale urbano di Brescia e militante nel Partito Comunista, si è impegnata nella Resistenza come rivoluzionaria di professione.
• La dimensione di confine tra vita partigiana e vita civile è rappresenta dalle staffette che si mossero tra la militanza occultata e una normalità, esibita quale garanzia di sopravvivenza, come nel caso di CHIARA FOSTINELLI • La solidarietà diffusa, espressa dalle donne dei vari paesi, caratterizzata per gli aspetti di altruismo e sensibilità verso i perseguitati, i più deboli, i ricercati, rafforzata da un radicato antifascismo così come è stato per numerosissime donne della Valsaviore, tra le quali MARIA ZONTA ed EMILIA DAVIDE6
Quanto è accaduto in Valsaviore tra l’autunno 1943 e la primavera 1945 si è verificato anche in altre vallate alpine, nelle quali il massiccio coinvolgimento femminile è stato spiegato come «un’inedita mobilità-visibilità della donna negli anni della guerriglia, anche quando non si discosta dai suoi gesti consueti». In varie circostanze, ma in particolar modo nei momenti di maggior rischio, la barriera tra i ruoli attribuiti ai due sessi si dissolve «quando è la donna che protegge, nasconde, guida i passi, procura il cibo, sostiene l’uomo indebolito o ferito, va in avanscoperta, porta armi e messaggi (citazione di Bianca D. Ceresara)».
Katia E. Bresadola
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Il ruolo rivestito dalle donne nel movimento partigiano di Valsaviore è assai più rilevante di quanto non sia stato accertato in sede storiografica. È oggi possibile ricostruire solo una minima parte degli episodi e dei gesti di solidarietà femminile rivelatisi decisivi nell’evitare arresti e uccisioni dei ribelli. Alla naturalezza con cui viene prestato aiuto, dopo la Liberazione non corrisponde la rivendicazione di meriti o l’annotazione nelle cronache dei rischi corsi per giovare ai garibaldini. La maggioranza delle donne che hanno fornito un apporto essenziale al movimento resistenziale, rischiando la vita in diverse occasioni, sono state “partigiane senza
brevetto”, cioè senza aver ricevuto nel dopoguerra un riconoscimento ufficiale. «Solo una piccola minoranza di esse andò, alla Liberazione, a farsi dare il riconoscimento ufficiale, mentre gli uomini andarono tutti; andò anche, come qualche volta si è detto, qualcuno in più. Del resto, si capisce: a loro poteva anche giovare, non fosse che per ragioni di servizio militare, ma le donne di quel pezzo di carta che ne facevano? Senza contare che la maggior parte di loro aveva il sopravvento dell’invincibile modestia che le portava a ritenere di non aver fatto “niente di speciale”» (citazione tratta da L’altra metà della Resistenza di AA.VV, Marzotta
Editore, 1978).
Nell’economia montana la donna affiancava alla cura della famiglia il lavoro nei campi. Scoppiata la guerra, il ruolo femminile è accresciuto di pari passo con il massiccio prelievo della gioventù maschile da parte degli organi di reclutamento. Dopo l’Armistizio, sono state le donne a partire dalla Valsaviore verso la Bassa Bresciana, per barattare patate e castagne con farina di granoturco e altri generi alimentari di primaria necessità. La scarsità di cibo, le costringeva a fare lunghi ed estenuanti viaggi per scambiare quel poco di cui potevano privarsi per il sostentamento della famiglia, nei mercati delle città oppure al mercato clandestino, per portare a casa farina, zucchero, sale e tutti quegli alimenti che non fornivano la lavorazione della terra o l’allevamento del bestiame.
Al significato di casa, della quale la donna tradizionalmente è considerata come custode del focolare, si affianca nell’impegno resistenziale una rilevante funzione pubblica, allorché l’abitazione diviene sede di comando, infermeria o rifugio per renitenti, partigiani e fiancheggiatori. Questa difficile gestione tra normalità apparente e clandestinità è gestita dalle donne della Valsaviore che, avendo vissuto in famiglie di orientamento politico avverso al fascismo costato ai propri cari persecuzioni e allontanamento dal proprio paese, ne hanno fatto un ideale nel momento in cui si espongono per la giusta causa, nella quale avevano sempre creduto aiutando la Resistenza locale. A fianco dei comportamenti rischiosi e pericolosi assunti dalle donne, dei quali la motivazione può
essere ricondotta all’ospitalità e alla solidarietà, si trovano pertanto nel loro intimo consapevoli convinzioni antifasciste, «i cui valori sono quelli della tradizione contadina sui quali però è attecchito il seme della ribellione in seguito alle ingiustizie subite. In questo caso l’attività antifascista è una scelta maturata in cerca di una diretta e personale esperienza […]. Il fatto che la storia politica dell’intervistata si collochi nella tradizione della famiglia non sminuisce il valore della scelta personale. Dimostra piuttosto il suo legame solido con l’antifascismo, la necessità reale e non puramente ideale di essere antifascisti per chi, come lei, conosce fin da
bambina condizioni di povertà e da adolescente, costretta a misurarsi con le regole e i riti del fascismo al potere, scopre la propria impossibilità di tollerarli e di adeguarvisi».
Dall’8 settembre 1943, data dell’Armistizio e inizio della renitenza, e per tutto il periodo della Resistenza fino al 25 aprile 1945, data
convenzionale della Liberazione dai regimi nazista e fascista, le donne valsavioresi, madri, mogli, sorelle, fidanzate di renitenti, disertori o partigiani, si sono premurate di occultare nei diversi paesi uomini bisognosi di cure e protezione. Li nascondono in soffitte, anfratti e bugigattoli o dando loro abiti civili, del cibo e un luogo sicuro dove rifocillarsi per poi riprendere il viaggio verso casa. Si preoccupano di tenerli informati sugli spostamenti dei reparti nazifascisti attraverso piccoli gesti, come stendere le lenzuola sull’erba per indicar loro la presenza di pattuglie fasciste, squadre o un rastrellamento in corso. Assicurarono i collegamenti come
staffette ai vari reparti e tra il Comando e i centri resistenziali e, in alcuni casi, si impegnano come combattenti, entrando anche nei gruppi di Brigata.
Tenendo presenti le esperienze attraversate dalle donne coinvolte nella Resistenza valsaviorese e le testimonianze da esse rilasciate, è possibile abbozzare tre possibili e differenti ruoli:
• La militanza a tempo pieno nella formazione armata, che è un’eccezione di MARIA FRANZINELLI, staffetta in fuga perché ricercata dai fascisti. ROSINA ROMELLI, una ragazza quindicenne che ha dovuto seguire i genitori in Val Malga. ELSA SACOBOSI
che, proveniente dal contesto socio-culturale urbano di Brescia e militante nel Partito Comunista, si è impegnata nella Resistenza come rivoluzionaria di professione.
• La dimensione di confine tra vita partigiana e vita civile è rappresenta dalle staffette che si mossero tra la militanza occultata e una normalità, esibita quale garanzia di sopravvivenza, come nel caso di CHIARA FOSTINELLI • La solidarietà diffusa, espressa dalle donne dei vari paesi, caratterizzata per gli aspetti di altruismo e sensibilità verso i perseguitati, i più deboli, i ricercati, rafforzata da un radicato antifascismo così come è stato per numerosissime donne della Valsaviore, tra le quali MARIA ZONTA ed EMILIA DAVIDE6
Quanto è accaduto in Valsaviore tra l’autunno 1943 e la primavera 1945 si è verificato anche in altre vallate alpine, nelle quali il massiccio coinvolgimento femminile è stato spiegato come «un’inedita mobilità-visibilità della donna negli anni della guerriglia, anche quando non si discosta dai suoi gesti consueti». In varie circostanze, ma in particolar modo nei momenti di maggior rischio, la barriera tra i ruoli attribuiti ai due sessi si dissolve «quando è la donna che protegge, nasconde, guida i passi, procura il cibo, sostiene l’uomo indebolito o ferito, va in avanscoperta, porta armi e messaggi (citazione di Bianca D. Ceresara)».
Katia E. Bresadola
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