di Valsaviore

"RACCONTI DI DONNE NELLA RESISTENZA VOLUME 2" di Katia E. Bresadola- ed. 2020

L’Istria è una terra che, come tutte le altre terre del mondo, può essere vista nella sua dimensione fisica, geografica e storica, ed è in questa visione ideale fatta di case e di cose, di uomini e di donne, di contadini e marinai, di campanili a punta e cimiteri, di Storia e di storie, di poesie e leggende, di miti e riti, di tradizioni e di superstizioni, di odori e sapori che si colloca il racconto della protagonista.
A quel triangolo di terra nella cornice delle sue rocce lisce e bianchissime con i pini che, incuranti della Storia, si chinano oggi come si chinavano ieri ad accarezzare un Adriatico che in nessun altro posto è così verde e trasparente, per molti anni si è voluta porre l’attenzione prevalentemente alla sua dimensione politica, senza riconoscerle nessun’altra possibile identità.
Ma l’Istria non è solo da associare ad una tragedia umana e politica come molti ormai sanno, nella quale l’evento storico dell’esodo giuliano dalmata, noto anche come esodo istriano, viene unitamente collegato all’orrore delle Foibe, perché l’Istria è soprattutto bella e ricca di storie, le storie di quanti si riconoscono con forza e dignità originari di questa terra bellissima. E proprio questa dimensione fatta di bellezza, ricordi e sentimenti, permette a chi vuole raccontarla e comunicarla non solo di superare la Storia, ma di arricchirla attraverso i racconti della sua gente, di quanti si identificano italiani nati in Istria.
Nascere in Istria è anche il destino di portarsi dentro un dolore, che come tutti i dolori, è anche fisico: una piccola fitta allo stomaco, il respiro che improvvisamente manca nel momento in cui torni a ricordare, a portare al cuore la bellezza di quella terra che, per chi è nato in Istria come mia madre e mia nonna, rimane fissata indelebilmente nella memoria e che, senza volerlo o forse consapevolmente, le ha condannate a vivere con un sentimento di incompletezza e a volte di estraneità.
Aver avuto la sorte di nascere in Istria ed averla perduta, non ha significato per loro solo aver perduto una terra, una città, una casa, i mobili di famiglia, la sicurezza, il benessere, il dialetto ma soprattutto ha significato perdere i propri cari, la propria gente, anche i morti al cimitero.
Con “l’esodo” letteralmente inteso come partenza, insieme al paese e alla casa, hanno perso tutti quei riferimenti che, come diciamo
oggi, servono a “far rete”, a proteggerti in qualche modo lungo la vita.                                                                                                            Per chi è venuto via dall’Istria da bambina come la narratrice di questa storia, mia mamma Aurelia, ha significato perdere anche la propria infanzia. Uno strappo doloroso e il conseguente dover ricominciare a nascere quando si è già bambini, mentre gli altri, devono solo continuare a crescere nel proseguimento naturale verso la giovinezza.                                                                                      Per chi è già donna, moglie e madre come nonna Eufemia, la perdita è stata ancora più dolorosa e insuperabile, nonostante il passare
degli anni e l’integrazione nella nuova comunità, nella memoria di quanti la conobbero dopo il suo arrivo in Italia era e rimase “la slava”. Un termine usato non in senso discriminatorio o offensivo nei confronti della sua persona, ma come identitario e distintivo per chi come lei, veniva da un’altra terra e si esprimeva utilizzando una lingua diversa, il dialetto istro-veneto. Solo con il marito si riappropriava della lingua del cuore e del pensiero, lo slavo, spesso per non farsi volutamente capire dai figli, e che riprendeva a
parlare ogni qualvolta varcava la frontiera per tornare al suo paese, Marçana, mostrando orgogliosamente le sue origini e la sua appartenenza.                                                                                                                                                                                                                 E infine per il capofamiglia, mio nonno Matteo, la partenza coincise con il momento di fare una scelta determinante, da convinto antifascista e fervente patriota quale era: lasciare la resistenza jugoslava dove militava per combattere l’oppressore nazifascista, per continuare la sua lotta in Patria. Da italiano, che come tanti italiani, torna al suo paese Grevo di Cedegolo dove, guidato dagli ideali di Libertà, Pace e Giustizia sociale si unisce alla resistenza locale confluita nella 54a Brigata Garibaldi di Valsaviore, aggregandosi al gruppo dei partigiani dislocati nel suo territorio fino alla Liberazione.
Questo racconto è un viaggio nella memoria e nel cuore.

Katia Eufemia Bresadola

 

L’Istria è una terra che, come tutte le altre terre del mondo, può essere vista nella sua dimensione fisica, geografica e storica, ed è in questa visione ideale fatta di case e di cose, di uomini e di donne, di contadini e marinai, di campanili a punta e cimiteri, di Storia e di storie, di poesie e leggende, di miti e riti, di tradizioni e di superstizioni, di odori e sapori che si colloca il racconto della protagonista.
A quel triangolo di terra nella cornice delle sue rocce lisce e bianchissime con i pini che, incuranti della Storia, si chinano oggi come si chinavano ieri ad accarezzare un Adriatico che in nessun altro posto è così verde e trasparente, per molti anni si è voluta porre l’attenzione prevalentemente alla sua dimensione politica, senza riconoscerle nessun’altra possibile identità.
Ma l’Istria non è solo da associare ad una tragedia umana e politica come molti ormai sanno, nella quale l’evento storico dell’esodo giuliano dalmata, noto anche come esodo istriano, viene unitamente collegato all’orrore delle Foibe, perché l’Istria è soprattutto bella e ricca di storie, le storie di quanti si riconoscono con forza e dignità originari di questa terra bellissima. E proprio questa dimensione fatta di bellezza, ricordi e sentimenti, permette a chi vuole raccontarla e comunicarla non solo di superare la Storia, ma di arricchirla attraverso i racconti della sua gente, di quanti si identificano italiani nati in Istria.
Nascere in Istria è anche il destino di portarsi dentro un dolore, che come tutti i dolori, è anche fisico: una piccola fitta allo stomaco, il respiro che improvvisamente manca nel momento in cui torni a ricordare, a portare al cuore la bellezza di quella terra che, per chi è nato in Istria come mia madre e mia nonna, rimane fissata indelebilmente nella memoria e che, senza volerlo o forse consapevolmente, le ha condannate a vivere con un sentimento di incompletezza e a volte di estraneità.
Aver avuto la sorte di nascere in Istria ed averla perduta, non ha significato per loro solo aver perduto una terra, una città, una casa, i mobili di famiglia, la sicurezza, il benessere, il dialetto ma soprattutto ha significato perdere i propri cari, la propria gente, anche i morti al cimitero.
Con “l’esodo” letteralmente inteso come partenza, insieme al paese e alla casa, hanno perso tutti quei riferimenti che, come diciamo
oggi, servono a “far rete”, a proteggerti in qualche modo lungo la vita.                                                                                                            Per chi è venuto via dall’Istria da bambina come la narratrice di questa storia, mia mamma Aurelia, ha significato perdere anche la propria infanzia. Uno strappo doloroso e il conseguente dover ricominciare a nascere quando si è già bambini, mentre gli altri, devono solo continuare a crescere nel proseguimento naturale verso la giovinezza.                                                                                      Per chi è già donna, moglie e madre come nonna Eufemia, la perdita è stata ancora più dolorosa e insuperabile, nonostante il passare
degli anni e l’integrazione nella nuova comunità, nella memoria di quanti la conobbero dopo il suo arrivo in Italia era e rimase “la slava”. Un termine usato non in senso discriminatorio o offensivo nei confronti della sua persona, ma come identitario e distintivo per chi come lei, veniva da un’altra terra e si esprimeva utilizzando una lingua diversa, il dialetto istro-veneto. Solo con il marito si riappropriava della lingua del cuore e del pensiero, lo slavo, spesso per non farsi volutamente capire dai figli, e che riprendeva a
parlare ogni qualvolta varcava la frontiera per tornare al suo paese, Marçana, mostrando orgogliosamente le sue origini e la sua appartenenza.                                                                                                                                                                                                                 E infine per il capofamiglia, mio nonno Matteo, la partenza coincise con il momento di fare una scelta determinante, da convinto antifascista e fervente patriota quale era: lasciare la resistenza jugoslava dove militava per combattere l’oppressore nazifascista, per continuare la sua lotta in Patria. Da italiano, che come tanti italiani, torna al suo paese Grevo di Cedegolo dove, guidato dagli ideali di Libertà, Pace e Giustizia sociale si unisce alla resistenza locale confluita nella 54a Brigata Garibaldi di Valsaviore, aggregandosi al gruppo dei partigiani dislocati nel suo territorio fino alla Liberazione.
Questo racconto è un viaggio nella memoria e nel cuore.

Katia Eufemia Bresadola

 

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